Fermo.- Dolci o salati, i piatti tipici marchigiani da proporre in occasione della Santa Pasqua raccontano un’affascinante storia, quella del viscerale legame che lega la popolazione con il proprio territorio. Tipicamente di origine contadina, dal nord al sud la tradizione gastronomica cambia pelle repentinamente, anche a distanza di pochi chilometri, assumendo connotazioni e forme identitarie specifiche di una determinata zona.
Alcune specialità però emergono per la loro diffusione quasi totalitaria in tutta la regione, proposte per tale occasione in quantità assai abbondante e volta ad assumere un connotato prettamente religioso e spirituale. Il trionfo di cibo tipico proposto nella “colazione di Pasqua nelle Marche” rappresenta la giusta conclusione del periodo di digiuno Quaresimale, omaggiando così la Resurrezione di Cristo con un ritorno alla vita a pieno regime. Ma quali sono le leccornie proposte per tale evento? Ecco una rassegna dei prodotti più rilevanti, da gustare e scoprire personalmente per riscoprire tutto il fascino delle antiche tradizioni.
Torta al formaggio
Conosciuta anche con gli pseudonimi dialettali di “pizza con cascio ” o “crescia brusca” in onore della sua vistosa crescita durante la lievitazione, la sofficità di questa torta rustica soddisfa da anni le accortezze del popolo marchigiano, solito consumarla durante qualche gita di Pasquetta fuoriporta. Facilissima da preparare, anche da mani meno esperte, la golosità di questa pietanza da street food si rispecchia nei filanti tocchi di formaggio fusi durante la cottura, i quali si sposano divinamente con il beneamato Ciauscolo nostrano o con vari altri affettati.
La forma a cupola di questo antipasto, tanto da renderlo più un panettone che una torta, accompagna le festività Pasquali delle Marche da più di 100 anni. La prima ricetta conosciuta risale di fatto al 1848, rinvenuta nel manuale “Memorie delle cresce di Pasqua fatte nel 1848” scritto direttamente dalle monache del monastero di Santa Maria Maddalena nella provincia di Ancona, precisamente presso Serra de’ Conti. Verrà in seguito riscontrata la sua presenza 16 anni dopo nel ricettario anonimo “Il cuoco delle Marche”. rinvenuto nella limitrofa Loreto.
L’antica usanza prevedeva la preparazione della torta nei giorni antecedenti la domenica Pasquale (Giovedì o Venerdì Santo), utilizzando ben 40 uova tante quanto i giorni che componevano la Quaresima. Una volta sfornata, veniva consegnata su prenotazione alle famiglie locali, impossibilitate nell’assaggiarla fino allo “scioglimento delle campane”, sancito con il periodo di penitenza della Quaresima. I più audaci invece si cimentavano con le proprie mani nella sua realizzazione, venendo in seguito cotta in modo comunitario nel forno cittadino per essere poi benedetta in chiesa.
Ritornando ai nostri giorni, mai attestare l’esistenza di un’unica ricetta! Ogni località, se non ogni famiglia, propone la sua personale rivisitazione, svariando sia sulla dose ma anche sugli ingredienti utilizzati. L’oggetto della discordia è senza dubbio la tipologia di formaggio utilizzato: c’è chi utilizza il pecorino, chi il grana, chi l’emmental, con l’intento ognuno di personalizzare al massimo la propria creazione. Esistono inoltre varianti regionali, ognuna con un proprio bagaglio culturale. Molto simile a quella marchigiana è la variante umbra, differente solamente per l’assenza dei pezzi di formaggio, responsabili della tipica alveolatura che la contraddistingue. Per gli amanti del dolce, sta prendendo sempre più piede una sua rivisitazione “zuccherata” dove al posto del formaggio si aggiunge uvetta e canditi, decorando poi l’esterno con una copertura di meringhe e zuccherini.
Coratella d’agnello
Altra pietanza imperdibile della tradizione, la coratella d’agnello è sinonimo da sempre di sensazioni contrastanti. La sua rusticità, intrisa di sapori forti e decisi, divide da sempre la regione tra chi la ama alla follia e chi starebbe meglio senza. La sua unicità è riscontrabile direttamente nel suo nome: deriva da “corata”, ovvero frattaglie di animale adulto per cui, a rigor di logica, si tratta di miscuglio di cuore, budella, polmoni, fegato e milza di animali di piccola taglia, in questo caso di agnello.
In tempi remoti, l’alto tasso nutrizionale ed energetico, insieme alla semplice reperibilità degli ingredienti, hanno reso la coratella il pasto ideale dei contadini, da cui trae origine, soliti consumarla durante le prime luci dell’alba nel periodo Pasquale. Molto diffusa in tutto il Centro Italia, viene servita in tutti i colori, ma quella che si avvicina di più allo stampo tradizionale marchigiano e la cottura con le uova strapazzate ed erbette aromatiche. Se la vicina Umbria è solita presentarla anche in bianco, nel Lazio invece i carciofi ne diventano il partner perfetto. Si tratta di un piatto non elaborato, tuttavia bisogna fare attenzione alle differenti cotture delle parti di frattaglie inserite, frutto dell’accattivante gioco di consistenze che lo rendono cosi apprezzato e popolare.
Ciambella Pasquale
Spostandoci verso il reparto dolciario, è doveroso focalizzarsi sulle ciambelle Pasquali, in gergo conosciute anche come “ciambelle strozzose”. Il curioso appellativo si rispecchia nella particolare asciuttezza dell’impasto, facilmente ammorbidito insieme a qualche vino liquoroso (tra cui il buon vecchio “vì cotto”) o ricorrendo a delle sfiziose glassature a base di cacao, confettini o di ghiaccia reale.
Il segreto di tale consistenza sta tutto nel periodo di riposo tra le due cotture che la caratterizzano: dopo la prima cottura in acqua bollente, la ciambella viene fatta maturare per alcuni giorni, finendo infine per subire una seconda cottura, questa volta al forno. In linea con la tradizione “vergara”, si comincia ad impastare durante il venerdì Santo, concludendo poi in bellezza la domenica di Pasqua.
Calcioni marchigiani
Caliamo il sipario, infine, con i calcioni marchigiani. Queste simpatiche ghiottonerie esprimono tutta la loro duttilità gastronomica in base al loro ripieno. Partendo da una base casearia aromatizzata al limone, questi ravioloni ripieni rappresentano un eccellente antipasto salato se ripieni di pecorino o caciotta, mentre l’accoppiata zucchero, cannella e ricotta lo rendono un dessert di tutto rispetto.
Celebri in modo ubiquitario, sin dai tempi della dominazione Pontificia nella regione, sono conosciuti con vari nominativi in base alla zona di appartenenza. Se ad Ancona li troviamo come “calcioni”, esprimendo anche nella forma una vaga somiglianza con i meridionali calzoni, nel Fermano diventano “piconi” mentre nel Maceratese si riconoscono come “cacioni”, originari dal latino “cacium” ovvero formaggio. La paternità della ricetta viene reclamata in lungo e in largo, accendendo rivalità storiche come quella tra i comuni di Arcevia e Serra San Quirico (tutti e due nell’Anconetano) e portando persino a dedicarne una sagra apposita, come quella di Treia.
Davide Summo