Pesaro, 21 giugno 2019. Sono stati due i film del Concorso presentati ieri alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro e ben rappresentano lo spettro delle cinematografie coperte dal festival, provenendo il primo dall’India e il secondo dal Cile. La giovane regista Yashaswini Raghunandan ha infatti portato per la prima volta in Italia il suo That Cloud Never Left, prima opera di finizione realizzata dalla trentacinquenne di Bombay, attualmente ad Amsterdam per una residenza d’artista. La particolare attenzione che rivolge al suono e alle sue potenzialità narrative si riflette in questa opera che vaga per le vie di un piccolo villaggio fuori Calcutta riprendendo un’umanità variegata. La particolarità dell’opera di Raghunandan sta però nel mescolare metatestualità e mise en abyme giocando con spezzoni di vecchi film di Bollywood estratti da materiali di scarto che i bambini del film utilizzano per confezionare giocattoli sonori.
Camila José Donoso ha invece presentato in Piazza del Popolo il suo Nona. If they soak me, I’ll burn them che, come l’altro film di giornata, gioca sul confine tra realtà e finzione, cinema e vita, in una storia di vendette personali e sociali al cui centro c’è la nonna reale della regista, la quale interpreta un personaggio sopra le righe e fuori dagli schemi. Quando Nona si sposta per l’estate nella sua casa sulla costa cilena, assiste a una serie di misteriosi incendi che costringono molti dei suoi vicini a lasciare le loro case, mentre la sua abitazione rimane miracolosamente intatta. Girato in diversi formati romanzando vicende della vita della nonna, la giovane regista cilena restituisce con grande amore (quello di una nipote) un personaggio complesso e sfaccettato che, nonostante l’età, assurge a simbolo della società cilena contemporanea, ancora segnata dalle cicatrici della dittatura di Pinochet, ma non così convinta dei suoi più recenti cambiamenti.
Passando invece agli incontri della mattina in Pescheria, di particolare rilevanza è stato quello dedicato al focus sul cinema spagnolo, che ha recentemente conosciuto un grande boom di debutti al femminile. Ad introdurre l’incontro Annamaria Scaramella, organizzatrice del festival indipendente “Márgenes” di Madrid, aperto al cinema di avanguardia e alle nuove tendenze. Hanno partecipato al panel tre delle cinque registe presentate all’interno del focus: Andrea Jaurrieta, protagonista della proiezione in piazza di ieri con Ana de día, Diana Toucedo che domani introdurrà Trinta lumes, e Anxos Fazans, regista di A estación violenta.
Ana de día, proposto nel concorso Cinema in Piazza, opera prima della Jaurrieta che ha ottenuto anche una nomination ai Goya, “affronta il tema dell’identità e delle convenzioni sociali, dove pongo la domanda se sia possibile fuggire da sé stessi”. L’autrice ha illustrato il travagliato percorso produttivo del film, “durato otto anni, con un budget molto limitato e con continue difficoltà produttive che mi hanno condotta ad assumere il totale controllo sulla mia idea ricoprendo il ruolo di produttrice, sceneggiatrice e regista, garantendomi una totale libertà espressiva a fronte di un duro lavoro”.
Proiettato il 19 giugno al Teatro Sperimentale, A estación violenta è il primo lungometraggio di Fazans, un “progetto intimo e personale, contraddistinto da una messa in scena diretta e naturalistica e attraversato da una sensazione di vuoto e inquietudine”. A differenza della collega, la Fazans non ha avuto problemi di fondi, “in quanto sono sempre stata sostenuta da una produzione, che mi ha proposto l’adattamento del romanzo dal quale, dopo molte rivisitazioni e cambi di rotta, ho carpito l’essenza del mio film”.
Problematiche che ha invece dovuto affrontare Diana Toucedo, il cui Trinta lumes ha avuto la sua premiere al Festival di Berlino: “le idee forti alla base del film – che ha avuto una gestazione travagliata – sono quella del tempo, che da montatrice mi sta a cuore, ed il suo intrecciarsi sui suoi vari piani assieme alla concezione della morte, concepita non come la fine di ogni cosa, ma piuttosto come una trasformazione”. Questi fattori sono direttamente collegati alla realtà all’interno della quale l’opera è stata girata, la Galizia, dove “passato, presente e futuro non si susseguono linearmente, in una dimensione rurale che fonde il reale all’immaginario”.
Altro incontro tutto al femminile è stato quello dedicato agli Sguardi femminili russi, un programma che ha tagliato quest’anno il traguardo della decima edizione a Pesaro, in grado di dare una visione sempre aggiornata del cinema russo più recente realizzato dalle donne. L’incontro è stato moderato dalla curatrice della sezione Olga Strada che ha introdotto la direttrice del Festival di Mosca Irina Borisova, la quale ha messo in risalto i molti punti di contatto tra Pesaro e Mosca: “il tentativo è quello di cercare di invitare autrici che, seppur giovani, hanno già elaborato uno stile ed una sensibilità ben definite, alimentando un interesse per il cinema russo che fino ad ora non è mai calato”.
Il panel della sezione, che prevede la proiezione di cinque opere tra lunghi e cortometraggi realizzati da altrettante registe, ha visto prendere la parola le registe Marianna Sergeeva, (Holydays), Elizaveta Stišhova che ha introdotto in Piazza il già pluripremiato Sulejman Mountain, e l’attrice Maria Borovicheva, protagonista della storia di formazione The Port, realizzato da Aleksandra Streljanaja e presentato in Sala Grande. A prendere la parola è stata inizialmente la Sergeeva, spiegando come la scuola del documentario di Marina Razbezkina abbia avuto su di lei una influenza determinante nel suo modo di pensare il documentario e rendere la realtà nella sua essenza più profonda, “fine che può essere raggiunto attenendosi a rigide regole e utilizzando specifiche tecniche di lavoro, come il divieto dell’utilizzo dello zoom, della musica extradiegetica, o qualsiasi altro escamotage fuorviante per la verosimiglianza della resa attoriale”.
Ha proseguito poi Elizaveta Stišhova, illustrando le idee alla base del suo lavoro: “la mia volontà era quella di raccontare i quattro protagonisti cercando di limitare il più possibile l’influenza registica, favorendo la libertà attoriale degli interpreti, in comunione con gli elementi che caratterizzano il cinema-documentario”. Ha chiuso l’incontro Maria Borovicheva, raccontando l’esperienza vissuta sul set di The Port