Dal consigliere regionale della Lega, Anna Menghi riceviamo e volentieri pubblichiamo come contributo al dibattito sul tema delle pari opportunità :
Macerata, 8 marzo.- “In questi giorni di grande lavoro ho avvertito il bisogno di una riflessione più profonda sul senso di alcune questioni che mi stanno a cuore. Fatti di vita che si intrecciano ad eventi dell’attualità e che tornano ad avere risonanza, malgrado il tempo trascorso e le esperienze maturate.
Chi mi conosce sa che non amo vivere a favore di “telecamere”, come pure che non ho mai messo davanti al bene comune quello del singolo, ritenendo l’imparzialità e la ricerca di una ragione oggettiva nelle cose qualità primarie dei percorsi politici che mi apprestavo ad intraprendere. Per questo ho sempre cercato di mettere da parte chi ero per far emergere, al di là della persona, il ruolo che andavo a ricoprire. Sentivo così tanto il peso della responsabilità, da vedere solo ciò che avevo bisogno di dimostrare, oltre la gratitudine nei confronti di chi mi aveva dato fiducia e opportunità.
Ed è proprio questa, tra le tante, una delle parole che hanno suscitato alcune mie riflessioni delle ultime settimane: opportunità. Se ne parla di continuo, riferendola a tante condizioni. Non sempre, tuttavia, se ne percepisce l’importanza, soprattutto se la rapportiamo alle innumerevoli implicazioni che può avere nelle tante declinazioni della vita.
Noto infatti, mio malgrado, che talvolta se ne faccia un uso/abuso e che il senso dato a certe espressioni non si riferisca al significato che potrebbe assumere nel linguaggio delle istituzioni, bensì a quello, pur importante ma non sempre pertinente, delle conversazioni tra amici. È chiaro, infatti, ed evidente che le opportunità, possono essere qualificate in tanti modi, possono essere pari, ma anche dispari, purché portino al bene e aiutino a sviluppare la società nel suo complesso.
Se penso alla mia storia, devo dire che le opportunità sono state, il più delle volte, dispari. Da quando avevo sei mesi e contrassi la poliomielite dopo aver fatto il vaccino ho vissuto un’esistenza contrassegnata da disabilità evidente. Quando la vita ti colpisce in modo così duro, le opportunità che ti offre sono tutt’altro che “pari”, sono “dispari” e diverse. Diverse da tutto quanto ci sembra logico e sensato, diverse da quelle che ogni genitore desidererebbe per i propri figli, diverse dai tuoi compagni di scuola. E questo tipo di “diversità” pesa, tanto più se a viverla sulla sua pelle è una bambina degli anni ’60-’70, incapace di comprendere come mai proprio a lei sia capitato di portare in dote un così pesante fardello. Il contesto storico della mia infanzia non era certamente emancipato. Erano gli anni del boom economico, ma il dibattito del cambiamento della società era solo agli inizi e in Italia, in quel preciso momento, essere “disabile” in una terra di provincia come le Marche, non era certamente facile. Eppure oggi, che ho 58 anni e di vita ne ho cavalcata un bel po’, posso dire di aver trasformato quelle opportunità “dispari” che mi venivano date in un’occasione di crescita, in una condizione di partenza favorevolissima a comprendere prima i problemi degli altri.
Eppure le difficoltà non sono mancate, cristallizzandosi nel giudizio di chi, a suo modo, percepiva quella mia condizione come un elemento di difformità alla società troppo grande per essere considerato un valore aggiunto e una ricchezza. Certi sguardi di commiserazione e cattiveria ancora li porto dentro. Sono l’emblema del mondo che volevo e voglio cambiare, abiurando qualunque forma di discriminazione e ipocrisia.
Quando ero piccola sono stata oggetto di attenzioni “particolari” da parte di un amico di famiglia che, per fortuna, non sono mai andate oltre. Questa persona, che godeva della fiducia totale dei miei genitori, ha provato ad inculcarmi l’idea secondo cui, a causa della mia disabilità, nessun uomo mi avrebbe mai guardato e voluto, motivo per cui avrei dovuto accontentarmi di lui. Ancora ricordo molto bene lo stato di disagio nel quale mi trovavo ogni volta che rimaneva da solo con me e penso di poter dire che certe violenze psicologiche sono destinate a cambiare la tua personalità per sempre.
La reazione a quell’esperienza fu di “ribellione” totale al sentirmi anche solo lontanamente come gli occhi di quell’uomo volevano dipingermi. Ho provato dapprima vergogna, ma poi rabbia, che si è trasformata in seguito in “fame” di esistere ed essere qualcosa di più della mia disabilità.
Volevo che la mia condizione fosse una reale opportunità, una possibilità di andare oltre il pregiudizio e le apparenze, ma anche uno strumento di realizzazione di progetti che andassero nella direzione di migliorare la società affinché nessuno dovesse sentirsi mai come me in quella situazione e in altre che pure la vita mi aveva da subito prospettato.
A distanza di tanti anni, pur provata da tutta una serie di delusioni che la vita non mi ha certo risparmiato, su una cosa ho mantenuto il punto, rifiutandomi di darla vinta a chi voleva, in nome di un ulteriore pregiudizio, limitare le mie possibilità: sebbene costretta ad impostare l’esistenza su basi differenti, ho potuto contare sul fatto di essere donna, circostanza per la quale non ho mai smesso di ringraziare, anche se, unita alla mia disabilità, costituiva una doppia ragione di discriminazione.
Forse anche per questa ragione non ho mai conferito alla data dell’8 marzo un significato che andasse oltre la semplice connotazione storica. Voglio dire che, al netto di ciò che ricorda, ho sempre pensato alla realtà della condizione femminile come ad un qualcosa cui dedicarsi a prescindere, impegnandosi in prima persona ogni giorno dell’anno. E l’ho fatto, accollandomi il peso di tante battaglie.
Ad un certo punto è stato infatti evidente il bisogno di protagonismo che le donne reclamavano, ma non tutte avevano la mia corazza. Quel bisogno l’ho avvertito anche nella mia famiglia, in cui la linea femminile ha sempre prevalso su quella maschile. Non ringrazierò mai abbastanza mia madre Teresa, per aver reso possibile, nonostante le sue/nostre umili (ma dignitose) origini, il sogno che avevo di iscrivermi all’università e laurearmi, condizione che ho sempre considerato alla base di qualunque emancipazione.
Quando, nei primi anni ’90, agli albori della nascita dell’Unione Europea, l’ANMIC (associazione nazionale mutilati ed invalidi civili) mi designò quale rappresentante italiana in un gruppo di lavoro della Fimitic, organismo internazionale di associazioni di persone disabili di cui l’Amnic era membro, mi resi conto dell’enorme gap esistente tra quanto accadeva in Italia e nel resto dei paesi europei. Noi che eravamo la culla del diritto, avevamo tante leggi e valori riconosciuti, ma di fatto solo sulla carta. Nel Nord Europa, per fare un esempio, avevano già una serie di servizi dedicati a conciliare i tempi della vita delle donne con gravi disabilità, costrette a dividersi tra lavoro e famiglie, e comunque non disposte a rinunciare ad essere mamme. Noi no.
Fu molto istruttiva, in quel tempo, la conoscenza di una cittadina svedese che guidava con il solo uso dei piedi, cosa impensabile in quel momento nel nostro Paese. La rivendicazione di un diritto così importante permise ad un mio amico tetraplegico, primo fra gli italiani, di prendere la patente e avviare anche da noi quel percorso di emancipazione che riguarda le minoranze e le categorie più fragili. Fatto quest’ultimo che mi ha sempre spinto a lottare a prescindere da quale fosse la fragilità in questione. Non l’ho mai reputato neppure un fatto politico, bensì umano e come tale l’ho sempre trattato in tutte le sedi.
Qualche anno dopo, in qualità di membro della Commissione regionale per le Pari Opportunità, ho avuto la possibilità di lavorare con un’altra donna, disabile come me. Si tratta di Carmen Mattei, persona eccezionale che conoscevo da tempo e che, come me, si era sempre impegnata sul fronte associativo delle disabilità. Ritrovarla in quell’esperienza fu di stimolo a proseguire la battaglia per il riconoscimento di certi diritti. Mi resi subito conto che, rispetto alle altre donne che facevano parte del gruppo, Carmen ed io eravamo, per così dire, più concrete, protese a ricercare soluzioni ai problemi reali. Eravamo “diverse”, perché avevamo vissuto e vivevamo sulla nostra pelle il peso enorme di una serie di limiti. Trovare soluzioni a quelli e ad altri era, per noi, non solo un vezzo politico, ma una necessità. Ragion per cui ci prodigammo ad alimentare un dibattito serio sul tema delle vere opportunità, volendo fare delle Marche, in tal senso, un modello di riferimento in Italia e in Europa. Non trovammo tuttavia sempre la solidarietà delle altre donne, che anzi, in taluni casi, mostravano una certa difficoltà ad appoggiare le nostre battaglie. Comprendemmo insomma che la strada da fare per il riconoscimento delle opportunità di cui tutti parlavano era lontano e che non sempre le donne sono solidali con le altre donne.
Nel momento in cui scrivo sono membro dell’Assemblea Legislativa delle Marche. Vivo con responsabilità il mio ruolo in un tempo certamente non facile. Sento tuttavia che ci sia spazio per nuove proposte e ci sia lo spirito per intraprendere nuove battaglie. Lo sento e voglio credere che saremo in grado di cambiare il corso degli eventi applicando a queste, come ad altre questioni, il criterio del buon senso.
Le pari opportunità sono realmente “pari” se danno ad ogni individuo la possibilità di essere diverso.
Se concepiamo le politiche di genere come uno strumento di omologazione neghiamo la differenza che c’è tra un uomo e una donna, tra individuo e individuo. Se non riempiamo tali politiche di contenuti che considerino le differenze una ricchezza, allora non solo non capiremo di cosa abbiamo bisogno per vivere, ma negheremo il più universale dei diritti, quello all’espressione della personalità di ciascun individuo, al di là dei suoi valori di riferimento.
Mi auguro che con pari opportunità si intenda sempre più il dare a ciascun essere umano, in quanto tale, parità di accesso alle impalcature sociali del paese, tenendo conto di tutte le diversità. Non siamo uguali. Siamo diversi. Ci accomuna solo la nostra umanità e a quella dovremmo tendere quando ci apprestiamo a gestire la cosa pubblica.”